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COSE SENZA NOME: LA PAROLA E L’IMMAGINE

Aggiornamento: 4 nov 2022

di Claudia Valsania






Ab l’alen tir vas me l’aire

qu’eu sen venir de Proensa…

(‘Respiro in me l’aria | che sento venire dalla Provenza’,

Peire Vidal)






Si racconta che James Cook, nel suo viaggio di esplorazione dei mari del Sud, si affidasse a un sacerdote tahitiano di nome Tupaia. L’arte della navigazione per i polinesiani rimandava al sapere astronomico, e in mare i naviganti seguivano rotte basate su cataloghi stellari («itinerari stellari» dunque, o aveia). Queste rotte venivano tramandate di generazione in generazione per mezzo di canti, che molte volte rievocavano i viaggi degli antenati.

C’è chi, nella lunga tradizione orale raccolta nei poemi omerici, ha visto sedimentato il sapere di un popolo (un sapere pratico: come si costruiscono le navi, come si rende grazie agli dèi, come si naviga nel Mediterraneo…), fissato nella memoria attraverso un espediente ritmico e narrativo. Il metro e l’intreccio. Così l’andamento del verso, le formule, la sequenza di immagini che forma la narrazione avrebbero favorito la memorabilità di conoscenze necessarie alla vita. Leggi, guerre, fondazioni, profezie, tutti gli aspetti essenziali dell’esistenza in origine furono infatti tramandati in versi. Le lingue stesse, secondo Vico, «incominciaron dal canto»…


I. Dal gesto muto alla parola poetica: il linguaggio di cose

La poesia è dunque un modo del linguaggio, un’esecuzione, un medium. La muove la volontà di restituire attraverso la parola una realtà che, se non fosse così nominata, sfuggirebbe; ed è di questa stessa realtà che, nel farlo, si sostanzia.

Nella Scienza nuova Vico fa seguire la lingua poetica a quella prima, concreta, degli uomini delle origini: «una lingua muta per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee ch’essi volevan significare». Rapporti naturali significa che esiste una continuità tra l’idea e il gesto che la esprime; significa che il gesto, per la sua stessa vicinanza fisica all’idea, la segue e la contiene. La trascrizione di questa originaria lingua segnica si dà per Vico in immagini, più specialmente nel geroglifico, che una forza concreta tiene formalmente vicino alla realtà di ciò che vede. Così l’ideogramma cinese per «brillare» – illustra Fenollosa in un libro sulla poesia cinese edito da Pound – usa il segno del sole unito a quello della luna; quello per il verbo astratto per eccellenza – la pura copula, il verbo «essere» – esprime invece un’idea di estrema concretezza: «afferrare con la mano dalla luna». C’è bisogno che la parola si tenga sulle cose per toccarne il senso, che rifiuti ogni astrazione. In poesia come in prosa, perché nell’una e nell’altra non dovrebbe essere poi così diverso lo sforzo che realizzi la parola esatta, necessaria, insostituibile, l’accostamento di suoni più significativo e memorabile. Immagini, metafore e descrizioni avvicinano dunque le cose, e ce le restituiscono cariche di tutto ciò che esse comunicano senza parole. Creano impressioni di realtà, e come tali ripetono nel testo quel gesto che prima era corpo. Che poi le immagini siano cadenzate secondo quel particolare ritmo interiore da cui l’immaginazione di ognuno di noi è scandita, è una prova ulteriore di questa loro immediata aderenza all’oggetto. La differenza tra la parola letteraria – immagine e ritmo – e quella comunemente intesa è tutta qui: nella sua non convenzionalità, nella sua inseparabilità di contenuto e forma, nel suo essere in lei, contenuto e forma, una cosa sola.


II. Il salto all’invisibile: la parola-immagine in Kazantzakis

È significativo che un libro come La mia Grecia di Kazantzakis – un diario di viaggio, un reportage, e quindi una descrizione – cominci con una nota sulla difficoltà del linguaggio, sulla crisi della parola:


Nell’atto della creazione, l’artista si cimenta con una sostanza dura, invisibile, a lui superiore. Persino un vincitore coperto di gloria ne esce sconfitto: infatti il nostro più profondo segreto – l’unico degno di essere espresso – resta indicibile, non si sottomette mai alla cornice materiale dell’arte. Ad ogni parola, ci sembra di soffocare. Vediamo un albero fiorito, un eroe, una donna, l’astro del mattino e gridiamo “Ah!” e nel nostro cuore non c’è posto per altro. Quando tentiamo di analizzare questo “Ah!” e di convertirlo in pensiero e in arte, per diffonderlo tra gli uomini e salvarlo dal nostro stesso destino di corruzione, come si svilisce in parole sguaiate e imbellettate, vuote e fantasiose!


Eppure, prosegue Kazantzakis, non si dà salvezza al di fuori delle parole. La risposta che si legge nel seguito del testo è che non esiste abisso che non possa essere domato da un ponte. Ma intanto, in queste pagine, prende a delinearsi anche una risposta diversa, che quella completa, sotto forma di immagine. È Ulisse legato all’albero maestro che presta ascolto al canto delle Sirene, simbolo di un’umanità che ha il coraggio di spingersi oltre i confini del noto e di assegnare un nome alle cose; è la voce dell’interiorità che prende in sogno forma, per l’autore, di nano barbuto, sprezzante di tutti gli sforzi per circoscrivere con la parola l’anima; è il dialogo stesso che si svolge tra loro, figura del pensiero; ma è soprattutto, in questa prima parte del testo, questa stessa voce spietata che si incarna nella Tigre Compagna di viaggio del titolo al prologo, la Tigre che vediamo avvinghiarsi alla testa dello scrittore e affondare gli artigli nel suo cervello, a ripensare con lui il viaggio – quello intero della vita – e, forse, a scriverne.

Non tutto nella realtà è palese. Ci sono relazioni nascoste, oscure analogie, profondità e altezze. Il passaggio dal visibile all’invisibile è possibile, ma la parola non basta a compierlo a meno che non affondi le sue radici nella realtà concreta. È anche una lezione tecnica che queste pagine contengono. L’immagine è una forma, una possibilità del salto. Lo diventa quando cessa di essere retoricamente intesa, se fissa nei suoi lineamenti non una suggestione pittorica più o meno arbitraria, un mero ornamento, ma la relazione reale, oggettiva, che costituisce la percezione di una realtà secondo che l’immaginazione la scopre. È poi questa la lezione che il mito, con il suo linguaggio di immagini, insegna. Dietro un’apparenza volgare e fugace esiste una realtà più concreta, sapiente, una complessità e ricchezza di significati che, direbbe Kazantzakis, «ha le radici nel vento», ma che l’immagine, come un simbolo, concentra su di sé e comprende. Da qui il discorso trae il suo respiro, la giustificazione ultima.


III. …e nel monologo di Molly Bloom

Nell’Ulisse di Joyce i personaggi, parlando, lasciano in genere una strana impressione: tutti si esprimono per luoghi comuni, frasi fatte, parole scontate, canzonette… Nessuno di loro sembra avere un’interiorità. Solo i tre personaggi principali, i coniugi Bloom e Stephen Dedalus, sfuggono in parte a questa norma, perché, a differenza degli altri, pensano. La loro interiorità è l’immaginario, la tecnica che lo esprime lo stream of consciousness.

Nel lungo monologo finale di Molly Bloom tutto, dalle percezioni al pensiero, è immagine. Non resta traccia in lei delle astrazioni logiche proprie di Leopold e Stephen. Il flusso dei suoi pensieri si muove attraverso un turbinio di colori, suoni, odori che si affastellano e sovrappongono e scalzano l’un l’altro seguendo il filo dell’associazione libera, del rimando intuitivo, dell’analogia, in un episodio fortemente lirico al centro del quale sta, come unico tema, proprio la vita di Molly, che si definisce come personaggio nel momento stesso in cui si racconta.

Nell’ultima parte del monologo, a un certo punto l’attenzione di Molly si ferma sui fiori della carta da parati della sua stanza. Ha inizio così una lunga sequenza di pensieri cui proprio l’immagine dei fiori fa da tramite, e che attraverso la nostalgia di una natura lontana conduce infine al giorno del suo celebre, definitivo, .


Sant’Iddio non c’è niente come la natura le montagne selvagge il mare e le onde che arrivano al galoppo poi una bella campagna con i campi di grano e avena e tutti i generi di cose e tutte le belle mandrie in giro che ti farebbe bene al cuore vedere fiumi e laghi e fiori d’ogni specie e odori e colori che crescono su dai fossi e le primule e natura per loro vuol dire che non c’è Dio io non darei neanche un soldo bucato per tutta la loro sapienza perché non vanno e creano qualcosa vorrei sapere spesso gliel’ho chiesto atei o come cavolo si chiamano […] ah sì li conosco bene chi è stata la prima persona dell’universo prima che ci fosse qualcuno che ha fatto tutto ah che loro non sanno né fare e neanche io allora cosa cambia potrebbero sempre tentare di bloccare il sole che non si alzi ma è per voi che brilla mi ha detto il giorno che eravamo distesi tra i rododendri alla punta di Howth lui col suo completo grigio di tweed e il cappello di paglia il giorno quando l’ho spinto a domandare la mia mano


A questo punto avviene un salto. Il fiore cessa di essere un oggetto reale, diventa immagine di lei: «ero un fiore della montagna», pensa Molly; «quand’ero ragazza ero un Fiore di Montagna», ora con la maiuscola. Sullo sfondo della Gibilterra della sua giovinezza (non a caso il sito delle mitiche Colonne d’Ercole superate da Ulisse nell’ultimo viaggio), il fiore scopre ciò che Molly Bloom è stata ed è sotto le maniere seducenti della donna di mondo. L’immagine si carica di un significato che la parola non saprebbe altrimenti esprimere, diventa un simbolo. La sua portata s’intuisce se si pensa che, all’inizio, i fiori sulla carta da parati erano stati detti per analogia simili alle stelle.

Il viaggio che Leopold Bloom ha compiuto nella Dublino di quella giornata, Molly lo compie quindi ora, distesa a letto, nella sua interiorità. È un viaggio di ritorno per entrambi, un rimpatrio. La sottotraccia mitica del testo orienta. A Calipso, effigiata sopra il letto come un emblema di sensualità, viene a contrapporsi ora l’altra figura di donna richiamata per Molly dal mito: Penelope, l’immagine inespressa che aleggia nella mente del lettore per tutta la durata del romanzo e che ora, finalmente, si risalda a lei. Ciò che Molly ritrova al termine del viaggio è il momento in cui ha detto a Bloom, dicendo così anche alla vita. «e io non volevo rispondere per prima solo stavo a guardare là fuori lontano il mare e il cielo e stavo pensando così tante cose che lui non sapeva». Le tante cose fluiscono allora per davvero nella pagina, portando con sé altrettante immagini del suo passato a Gibilterra, e di lei:


e le ragazze spagnole che se la ridevano nei loro scialli e quel pettine alto che avevano nei capelli e le aste di mattina e i Greci gli Ebrei gli Arabi […] sì e quei bellissimi Mori tutti in bianco e turbante come dei re che ti chiedevano di accomodarti a sedere nel loro piccolo negozio […] e il mare […] e il fulgore del tramonto e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle strane straducole e le case rosa e celesti e gialle e il giardino di rose e gelsomini e gerani e cactus e Gibilterra


Il , ripetuto nella pagina in modo sempre più stringente, è in definitiva questo. alle cose, alla realtà, alla vita ritrovata per intero in quel momento. Il Fiore, con la maiuscola a termine dell’elenco, tutto racchiude e suggella. Per Molly, come per la parola, l’immagine arriva a toccare e restituire il significato profondo che la abita. E con la maiuscola, proprio come Fiore, è anche l’ultimo .


Bibliografia

De Angelis, G., Guida alla lettura dell’Ulisse di J. Joyce, Lerici, Milano 1964.

Fenollosa, E., L’ideogramma cinese come mezzo di poesia: una ars poetica, introduzione e note di Ezra Pound, Libri Scheiwiller, Milano 1987.

Frasca, G., La letteratura nel reticolo mediale. La lettera che muore, Sossella, Bologna 2015.

Havelock, Eric A., Cultura orale e società della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 1995.

Joyce, J., Ulisse, traduzione e prefazione di Gianni Celati, Einaudi, Torino 2019.

Kazantzakis, N., La mia Grecia, Crocetti, Milano 2021.

Pavese, C., Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca), in Lavorare stanca, Einaudi, Torino 2015, pp. 121-32.

Poskett, J., Orizzonti. Una storia globale della scienza, Einaudi, Torino 2022.

Tonussi, P., “Sì, quando mi misi la rosa fra i capelli, come facevano le ragazze andaluse”: il monologo di Molly nell’Ulisse, l’esplosione della vita, “la rapsodia della carne”, su Pangea.

Vico, G., Opere, a cura di Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1959.

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