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Laurent Fignon

Per mille motivi lo sport di famiglia è il ciclismo. Che, a narratività, non sta dietro a nessuno. E’ l’epica allo stato puro, i suoi commentatori sono aedi (Adriano de Zan era semplicemente un mito, chi non si ricorda gli arrivi in volata con Van Poppel?). E vive la sua leggenda soprattutto nelle classiche del nord, nello sporco della Roubaix, e nell’anossia delle grandi montagne dei giri.

I miei tours e giri li facevo assegnando un punto del dado ad ogni mattonella del parquet di casa. Occupavo il corridoio tra la mia stanza e quella dei miei e via. Le salite erano mattonelle da 2 punti del dado e ogni mattonella valeva da 1 a 3 km di tappa.

Avevo le mie predilezioni, ma quello, tra i characters di quegli anni, che adesso mi ricordo con maggior simpatia, forse per la sua troppo prematura scomparsa, è Laurent Fignon.

Non ti ho voluto bene in vita quanto avrei dovuto, Laurent. Questo va detto. Eri il più incompreso degli eroi su due ruote, il più epico di tutti ma eri surclassato dalla mediaticità degli altri.

Se esiste un Ettore della bici, Laurent lo è a pieno diritto (e chi mi conosce sa la mia predilezione per l’Iliade e per il suo sesto canto).

Non lo si ricorda per le sue vittorie, giovane, ribelle, attaccante: quanti si ricordano delle sue discese dal poggio della Sanremo come un falco sulla preda (velocissimo in discesa, nonostante gli occhiali)? Chiedete a Fondriest. Quanti sanno della sua passione per la matematica, per la filosofia, per la verità? (amava il ciclismo perché "In bicicletta tutte le facciate svaniscono. Il ciclismo è la verità nuda.").

Lo ricordano tutti per quegli 8 secondi per cui ha perso il Tour contro Greg Lemond (uno che nel ranking degli sportivi che ho odiato di più, tralasciando i calciatori, sta nella top ten, con Armstrong, Agassi, Chang, Becker e Nadal, Hermann Mayer, Larry Bird).

Ma quando penso a Fignon, mi viene in mente la sua maglia gialla e nera, e le sue due sconfitte più belle, quella sul passo di Giau al giro, spinto da Dirk de Wolf per tutta la salita, arrivato tra gli organizzatori che hanno già smantellato tutto, portato via in ambulanza per ripresentarsi il giorno dopo, ma soprattutto quell’ultima, leggendaria scalata al col de la Bonette (il suo sesto canto dell’Iliade), al suo ultimo Tour, quando vede il cartello “strada più alta d’Europa” e si ferma. Si ferma perché, sapendo che è l’ultimo capitolo del libro, come disse poi, vuole assaporare “il (mio) attimo di tristezza e di grazia, che nessuno poteva rubarmi.

D.G.


#epicarie è la rubrica a tema sportivo a cura di Davide Genta
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